(seconda puntata)
Proseguo la passeggiata sull’argine del torrente. Ad un tratto qualcosa si posa sulla manica della mia giacca. Cos’è questo filo dentato che scorre sul dorso della mia mano illuminato dal sole d’aprile, questa sottospecie di scolopendra catafratta, dalla coda ritta e le ali ripiegate fugacemente sotto due brevissime elitre? Misura pochi millimetri. Non fosse per i miei trascorsi entomologici, ignorerei che si tratta di uno stafilino, un coleottero predatore. Volante. Ma che preferisce per lo più trascorrere il suo tempo acquattato sotto i sassi in prossimità delle rive dei torrenti, nell’oscurità del suo riparo. Dotato di minuscole enormi tenaglie. Glabro e scabro. Nero lucido. Quante specie ne esistono sul greto di questo fiume, oltre a questa? Quanti sono gli esemplari, in tutto? Immagino un censimento. Milioni. Brulicanti e vivi nonostante la presenza asfissiante dell’uomo, delle ruspe del cantiere adiacente, del monossido del viale, degli scoli di fogna a cielo aperto. So per certo che ce ne sono altre, di specie, proprio qui nascoste; sono attere, ancor più piccole, rosse e blu. E che sono piuttosto frequenti. Mi viene voglia di mettermi a cercarle qui, a due passi da casa, dietro il centro commerciale. Nel nuovo parco di San Donato (ma come hanno fatto a sopravvivere, a ripopolare queste lande dopo anni di industrializzazione pesante, tra gli oli dei motori, e di successivi scavi di bonifica e di ristrutturazioni edili urbane?). Riuscirei a trovarle tra i ciottoli, proprio qui, vicino a casa? Esistono veramente, queste creature mitologiche. Resistono ancora, perpetuanti la loro stessa forma quasi identica di generazione in generazione, da quando ero bambino, da quando era bambino mio padre, mio nonno. Da millenni? E se ci sono per certo molte altre specie oltre a questa, proprio qui, ora, se solo le cercassi, di questa stessa specie, in tale magro biotopo costretto tra parcheggi condominiali e palazzi, quanti esemplari possono esistere? Con quale densità di stafilini questo territorio è popolato? Quanti, e quanto diversi tra di loro, pur appartenendo alla stessa specie? Se tutti questi filiformi coleotteri unissero le loro tortili codine in una ghirlanda e scalassero le pareti dei condomini mantenute a forza di ristrutturazioni, se scalassero le pareti e ricoprissero tutte le superfici. Entrando nelle case del quartiere di Novoli. Penetrando nelle finestre. Uniti. Si riapproprierebbero dei loro spazi autoctoni. Intanto il filo minuscolo dentellato ha ripreso il suo volo di perlustrazione, staccando le zampette dalla mia mano. Che specie sarà stata? Quale nome un entomologo accademico avrà dato a un suo antenato? In quale casella della tassonomia andrà, per l’entomologo, a inserirsi? Sono rimasto con un pugno di dubbi. Ansia relativa alla smania umana di dare a tutto un nome, un peso, un numero. Cancello tutto. Volo via.
La cicindela dei campi zigzaga col suo volo a scatti tra le erbe lungo il sentiero in riva all’Arno, posandosi con le zampe lunghe e leggere sopra il fango. Il verde smeraldino del prato delle Cascine a primavera si riflette e incarna nell’elitra della predatrice per eccellenza. Tersa, fiammante divinità fluviale, appare poi tra i ciottoli candidi, zampettando. Le mandibole come roncole lucenti e affilate brillano alla luce del sole. Sul vialetto sterrato che costeggia l’Arno passeggio mentre fa già caldo, anche se è solo primavera. Ho ridisceso l’argine del Mugnone, costeggiando la ex manifattura tabacchi, il fosso macinante e i vecchi mulini diroccati arrivando fino al viadotto dell’Indiano, alla sagoma rossa del ponte strallato, diventata negli anni familiare (ma ho davvero un ricordo della fine degli anni Settanta, quando era ancora in costruzione?), passando sotto alla sua replica in miniatura, fino a giungere al baldacchino del mausoleo funebre, edificato nel 1879, che ricopre il busto scolpito del defunto principe indiano Rajaram Chuttraputti di Kolhapur, col turbante storto sulla sinistra di chi lo guarda. ll nonno Fiorenzo, dai villini di Via Mercadante dove abitava, là dove c’erano cave di rena e luoghi palustri prima delle bonifiche ottocentesche, mi portò qui una mattina che ero ancora bambino, vestito da cacciatore, con un fucilino di legno costruito con le sue mani nell’antro, odoroso di nafta e alluvione, della sua cantina. Poi più grande, col babbo, in pausa pranzo, prima di tornare a lavorare, un pomeriggio di molti anni fa, venimmo apposta per cercare insetti, coppia di entomologi esterrefatti e improvvisati nel mezzo degli anni Ottanta. Avevamo studiato insieme i manuali, sapevamo che la Cicindela predilige questi terreni sabbiosi, che è comune e schiude a primavera. Deve esserci ancora quindi. E infatti ci sei, anche se localizzarti non è semplice. Confusa e mimetizzata come i ricordi nel presente. Servirebbe un radar. Ci sei ancora oggi, come allora, anche se una tempesta ha sradicato platani, se le ruspe hanno sbancato parte dell’argine e è stata scavata una buca profonda dietro il monumento dei partigiani caduti, che il tempo a sua volta ha chiuso di nuovo. Ci sei ancora, come c’è quella lapide che ricorda i partigiani massacrati dai tedeschi in ritirata. Come c’è pure il Pentodon bidens, il placido scarabeo tontolone tra le erbe del sentiero. Come pure vola ancora la tenera farfalla Aurora dalle ali bianche con la punta aranciata. Ci sei ancora, ne sono sicuro, perché vedo in certi anfratti poco battuti ai margini del sentiero le buche circolari delle tue tane. Ci sei, feroce cicindela. Ma la tua ferocia naturale non è neppure lontanamente paragonabile a quella di chi qui ha ucciso coscientemente. Quei tedeschi. Da bambino quando ti inseguivo nella buca scavata dietro la lapide per i lavori di manutenzione del sacrario, temevo di imbattermi in un femore, in un teschio, in qualche osso di uno di quei poveri giovani partigiani trucidati per niente. Per il dovere, per il piacere che ha un uomo armato in ritirata di uccidere il nemico. E mentre passeggio cercandoti con la coda dell’occhio tra i fili d’erba, credendo di scorgere sul sentiero l’ombra del tuo volo o la sagoma circolare della tana delle tue larve, mi soggiunge spontaneo il ricordo delle pagine di Mario Sturani, del suo libro Caccia grossa tra le erbe, illustrato dallo stesso entomologo e scrittore torinese, di quella Torino degli anni Cinquanta, di Pavese, Einaudi, in cui descrive la sua esperienza di allevamento di questo coleottero. Quelle pagine vibranti che mi hanno fatto diventare un entomologo più esperto, un uomo migliore. Intanto dal greto dell’Arno spuntano le cime delle canne da pesca di una gara sportiva, file di persone in piedi con stivali che arrivano alla coscia, altre sedute su sgabelli di tela. La bava argentea delle lenze solca con un sibilo l’aria a ogni rilancio.
Ecco, prima di rincasare, tornando sui miei passi dalle rive d’Arno nuovamente verso i colli, l’inatteso incontro con la zigrinata Zerynthia! Tu qui vicino a Careggi, a pochi chilometri dal centro cittadino? Così si dice, stando ai racconti di certi anziani entomologi, ma a dire il vero qui a Firenze non ti avevo mai incontrata. Svolazzavi invece nei miei ricordi nel cielo azzurro di nubi primaverili, in controluce sul sole acerbo, a Fusignano, vicino a Ravenna, sostando poi a ali spiegate sopra un basso cespo di aristolochia, pianta nutrice del bruco, cresciuto ai bordi della scarpata vicina al fosso adiacente alla ferrovia. Ero allora un adolescente col retino, accompagnato dal babbo in fantastiche cacce sotto il sole. Sognante. Ignaro di tutto. La studio ora, in fotografie, la Zerinthia, in foto ad alta definizione scaricate sul desktop del computer. Il raro lepidottero segnala le sue tonde circonvoluzioni alari. Mette in risalto il ricamo nero sul bianco crema il rosso aposematico che illumina il corpo e la parte superiore delle ali socchiuse. Trapuntato centrino che si staglia su un cuscino di crochi, sul morbido astuccetto di muschio prospiciente il canale stagnante (barche rotte, chiglie sfondate). Quanto costerebbe se fosse in vendita? Su ebay ne ho trovate anche a soli cinque euro. Ma analoghi ricami e preziosi drappeggi apposti come cifra stilistica malamente copiata sull’esempio naturale e apposta sui capi di alta sartoria arrivano a valere cifre da capogiro. La natura invece non ha prezzo. È. Questo mostrarsi non ha valore. È in modo assoluto, senza assoggettamento alcuno alle leggi di mercato. Oggi, sulla riva di questo fiume, si rinnova inatteso il nostro incontro, e immagino molte altre farfalle come te volare libere e felici in una valletta umida ai piedi di Monte Morello, come in un sogno: quando il suono del passo scuote l’erba sotto il ponte di mattoni rossi, tra le fondamenta di pietra protette dalla fresca ombra, ecco la tua sagoma che si alza, offuscata dai raggi solari. Sorvola i ciliegi in fiore, involandosi. Il suo riflesso sull’acqua sfugge via.
(C’era una volta, in un vecchio pezzo di legno di un salice cresciuto storto accanto a un fosso, una larva bianca di cerambice. In Val di Sieve dell’Aromia moschata rinvenni solo le elitre, scisse dal corpo, in un caldo pomeriggio agostano ai margini di una carrabile polverosa. Alla base del tronco, prospicienti i fori di uscita dal tronco degli insetti adulti schiusi qualche mese prima, stavano i mucchietti di segatura, come ramazzati da gnomi intenti a mettere ordine ai margini del campo. I vecchi si dice seccassero le carcasse di questi coleotteri per poi tritarle e mischiarle nel tabacco da pipa per renderlo più aromatico. Ho annusato più volte i lunghi corpi verdi brillanti dell’Aromia spillati nelle teche della collezione di mio padre, senza però scorgere alcuna traccia olfattiva di muschio. Guardo quel salice. Piangente.)
Tommaso Lisa