Zitti e mosca
Sarà per via della luce, che comincia a fare capolino tra le cime degli alberi. Oppure sono i suoni che circondano la mia apparente solitudine. Il fatto è che in prossimità dell’alba si palesano i pensieri di grandezza. Della grandezza della natura e di quanto insignificante possa apparire tutto il resto, tutto quel correre disordinato a destra e manca. Non manca nessuno, eppure, all’appello del mattino.
Il bosco si sveglia di buon’ora e porta con sé una serie interminabile di piccole vicissitudini concatenate l’una con l’altra che alla fine della storia disegnano un’aurora. E domattina sarà lo stesso, Il Sole Sorgerà Ancora. Una piccola goccia di rugiada cadrà sulla tela del ragno che a causa dell’inattesa vibrazione uscirà allo scoperto esponendosi al pericolo di essere catturato dalla lingua estensibile e appiccicosa di un anfibio. I merli cominceranno a volare su e giù dentro e fuori e cercheranno larve e lombrichi e nuovi rametti da portare al nido. I rapaci chiuderanno gli occhi dopo una lunga notte di lavoro lasciandosi sfuggire l’ultimo topolino di campagna che torna nella sua tana, sano e salvo per questa volta. Gli scoiattoli annuseranno l’aria fresca con circospezione e sospetto. I tassi si faranno spazio tra le scope degli abeti e incroceranno caprioli daini e cinghiali tirando dritto a testa bassa per non salutare nessuno. Il tutto in perfetto equilibrio e armonia.
In certo senso, posso solo rovinare tutto.
Premendo un tasto, piuttosto che muovendomi con goffaggine in un ambiente che mi accoglie ma che non mi riconosce. Sono un ospite, non desiderato peraltro, e allora mi comporto come tale. Entro in acqua con cautela, grande fermezza ma lentamente. E riposo immobile, il tempo di una sigaretta, prima di muovere un secondo e terzo passo, per dare modo al mondo di riconoscere una variazione costante nel suono del fluire della corrente.
Osservo e aspetto.
Prendo le misure, idealmente, di spazi e distanze. Leggo la corrente come un giornale fresco di mattina, ancora piegato perfettamente nei grandi pancali di trasporto. Mi guardo attorno, senza muovere le gambe. Osservo la vegetazione, prendo riferimenti. Vento quasi assente. Insetti a volontà, ancora intorpiditi. Piccoli, nemmeno troppo, plecotteri. Quei muratori capaci che si costruiscono un rifugio su misura attorno al corpo con minuscoli frammenti di pietra dell’alveo. Sono usciti dal guscio. Tra poco comincia la festa. E infatti ecco una prima bollata, piuttosto vicina.
Apro la scatola di legno che contiene tutto: fervida immaginazione, serate invernali, fili e profili, dubbi persistenti, piume vaporose, strade da prendere, treni da non perdere. Tutto quanto arrotolato attorno a un amo, presuntuosa imitazione di un insetto molto generico oppure molto specifico, come in questo caso. Rende l’idea, no? Assomiglia a? Sembra proprio un. Si comporta come il. Catturante. Stimolante. Accattivante. Indispensabile.
Tutto inutile. È l’approccio che è sbagliato.
Ricomincio da tre. Da tre ciuffi di niente, non è importante. Chiudo i rubinetti a quel flusso costante di pensieri e parole che evadono e si disperdono in ordine sparso nell’ambiente circostante e fanno sì che l’incantesimo si spezzi, che la storia si antropizzi.
Osservazione. Osservanza.
Silenzio. Silenzio. Silenzio.
Vanni Marchioni