Avevo rifiutato la barca anche quando mi spettava. La consideravo una roba da pescatori all’acqua di rose. Il tono con cui l’avevo detto dovette urtare i due inglesi, rendendo i nostri rapporti ancora più freddi. Il gillie, invece, mi guardava con simpatia. Si era reso conto che non ero uno sprovveduto. Aveva visto il mio lancio, come attaccavo il fiume, gli stessi posti in cui mi avventuravo. Anche lui non riusciva a farsene una ragione. Durante la pausa di mezzogiorno gli inglesi si riposavano seduti sull’erba per un paio d’ore. Io, invece, specie gli ultimi due giorni, mi sbrigavo alla svelta e via a lanciare. I due non apprezzavano questo mio comportamento. Loro pescavano rilassati, io rabbioso. Perfino la mattina dell’ultimo giorno catturai un salmone che persi quasi subito. Un incubo. Pescavamo sulla riva opposta rispetto a quella dove si arrivava con l’auto. Il gillie, alle nove del mattino, ci traghettava sull’altra sponda per riportarci indietro la sera alle cinque. Era il suo orario. Alla fine della giornata dell’ultimo giorno, il gillie, ci riportò indietro. Scesi di barca e mi sedetti su una roccia. Ero distrutto. –Avevo fatto un numero incredibile di lanci. Il gillie mi lanciò un’occhiata interrogativa. Gli dissi che avevo intenzione di trattenermi. Volevo provarci ancora. Sorrise, scosse la testa, dicendomi di fare attenzione. Pescare da quella riva erapericoloso. I due inglesi mi salutarono freddamente.
Ero sul Tay, in Scozia, in un punto in cui il fiume era molto largo. Mi inoltrai su quel fondale di lastre di pietra con l’acqua che a malapena mi arrivava alle ginocchia. Dopo aver percorso un lungo tratto, l’acqua era circa alla stessa altezza. Non capivo. Dalla riva opposta pescavamo su diversi metri d’acqua. Solamente in seguito, dopo essermi inoltrato per un altro bel pezzo, svelai il mistero.Proprio davanti a me, poco oltre i miei piedi, il fiume sprofondava improvvisamente in un baratro scuro. Mi volsi. Alle spalle avevo una sessantina di metri di fiume e forse anche di più. Fin da quando mi ero inoltrato in acqua, la vastità del fiume mi aveva fatto temere che non sarei mai potuto “entrare in pesca”. E invece avevo il filo di corrente buono a portata di mano. La soddisfazione fu tale che non prestai attenzione a due cose. Primo che a poco più di un centinaio di metri a valle, il filo di corrente principale, quello che avevo di fronte, una scia biancastra che percorreva tutta la pool fin dal suo inizio, piegava verso il centro del fiume. Ma non detti peso nemmeno ad una seconda scia, che scorreva alla mia destra. Questa iniziava poco più in giù da dove mi trovavo. Era più tenue e corta, e confluiva poi nella prima un poco più a valle: due cose che avrebbero dovuto mettermi sull’avviso.
Invece di preoccuparmi, mi rilassai, complice la bellezza del posto, la maestosità del fiume, i tronchi rossastri degli abeti che contrastavano con il verde del fogliame, il ruggire del fiume che a valle si frantumava in una rapida turbolenta. Per effetto degli abeti,l’acqua pareva verde invece di color caffè. Poco avanti i miei piedi, dove il fiume sprofondava, alcune anguille si muovevano eleganti lungo la roccia del baratro. Retrocessi di qualche passo, tirai fuori buona parte di coda dal mulinello e iniziai a pescare come fosse il primo giorno e non l’ultima ora. Avanzavo passo passo non facendo attenzione al baratro che avevo davanti.
–La rilassatezza iniziale lasciò ben presto il posto a quella che ormai era divenuta un’ossessione: prendere almeno un pesce. Ma dovevo farlo alla svelta, ormai avevo spiccioli di tempo a disposizione. Per calmarmi decisi di farmi una sigaretta. Sistemai la canna sotto il braccio destro e, per riparare la fiamma dell’accendino dal vento, mi volsi di fianco, ancora verso destra. Ciò che scorsi con la coda dell’occhio da quella parte, mi gelò: avevo un baratro anche da quel lato. Ero giunto verso la fine di un triangolo di roccia, in quel punto largo poco più di un metro, che separava i due strapiombi che, poco avanti, si univano. Era il luogo laddove confluivano i due fili di corrente: quelle due scie biancastre cui non avevo dato peso. Risalii lo strapiombo che avevo costeggiato all’ingiù, tenendo al tempo stesso d’occhio anche l’altro, più assillato dal solito pensiero di catturare almeno un salmone che preoccupato.
Giunto in un punto sicuro, fui preso dallo scoramento. Mi chiesi che senso avesse pescare in un posto già battuto e con il tempo a disposizione ormai giunto al lumicino. Senza contare che avere un baratro per lato, ora, a mente fredda, non mi lasciava per nulla tranquillo. Mi dissi che la cosa migliore era tornare in albergo e farmi una doccia e un “whiskaccio”. Ma quell’ossessione che mi arroventava le viscere, era più forte d’ogni altra cosa. Ricominciai a pescare. Accadde dopo pochissimi lanci e vacci a capire qualcosa. Il mulinello gracchiò la più agognata delle melodie. L’avrei ascoltata per ore, tanto era inebriante. Quando ferrai, lo feci con tutta la disperazione che avevo in corpo. Subito dopo il salmone partì sfilandomi dal mulinello metri di coda, giusto per farmi capire con chi avevo a che fare. Cercai di controllarlo, senza forzare. Quel pesce partiva, si fermava e ripartiva: se continuava con quel giochetto, ogni volta portandomi via metri di coda e poi di backing, prima o dopo, l’avrei perso. Dovevo impedirglielo. Decisi che alla prossima sosta avrei incominciato a tirarlo a me sia pure con cautela. Ma tirare un pesce controcorrente, in linea retta, più che una fesseria, è un suicidio. Dovevo assolutamente ragionare. Purtroppo non c’era soluzione cui non trovavo qualcosa che non andava. Fu a quel punto che il pesce ripartì con violenza. Quella fuga fece riaffiorare in me l’angoscia dei salmoni persi nei giorni precedenti, quando a ogni cattura mi dicevo: stai calmo, ragiona, attento a questo, attento a quello.
Ragiona, continuavo a ripetermi, ragiona, bisogna sempre ragionare. Dai retta alla ragione. Non so come scattò la molla che oscurò la ragione liberando finalmente l’istinto. So solo che finalmente il cuore mi sussurrò che dovevo vivere quei momenti. Poco importa vincere o perdere. Importa poco anche se è un momento di gioia o dolore. Ora, continuava a sussurrarmi il cuore, stai per ingaggiare una gran bella lotta. Vivila come deve essere vissuta la lotta, con quell’esaltazione dell’animo quando nulla ha importanza se non la lotta stessa: un delirio in cui tutto scompare e sembra di vivere in mondo differente, in una dimensione diversa, addirittura in un corpo diverso dal tuo stesso corpo. Perché quando ci sei con il cuore, il corpo può solo seguirti. Rammento vagamente che in più di un’occasione arrivai a rasentare il baratro. Ora non mi incuteva più timore. Nulla mi faceva più paura. Non esiste spazio per la stanchezza, il dolore o la paura quando sei in questo stato d’animo. In questo mondo che c’è e non c’è. Che va e viene con te stesso, tu stesso lo accetti o lo sfuggi a seconda a chi dai retta. Pensavo solo a cedere coda o recuperarla. In due parole a lottare. Finché quel pesce si rammentò di essere un salmone. Sconvolse l’acqua come lo può fare solo un gran pesce. Si scaraventò verso valle come un uragano. Finché spaccò tutto.
Quando giunsi all’albergo i due inglesi mi chiesero com’era andata. Glielo dissi. I loro occhi erano pieni di commiserazione. I miei scintillavano ancora di esaltazione della lotta.